Torino, Anni '70, testa bassa e braccia all'opera. Nessuna paura di guardare in alto. Qui Valerio Bertotto ha cominciato a correre col Barcanova, quando i granata, la Juve e il grande calcio sembravano lontani da raggiungere. Figlio di un fotografo innamorato del pallone, dal padre Valerio ha imparato a zoomare, a guardare lontano restando fermi. L'Alessandria ha scommesso su di lui, l'Udinese gli ha spalancato le porte. Zaccheroni è stato un padre, Baggio un collega con cui sognare un Mondiale poi sfumato, Spalletti un maestro. Ai suoi ordini Bertotto è stato il capitano di squadra unica, espressione di una città di centomila abitanti che ha combattuto coi giganti Ronaldinho e Eto'o e con un giovanissimo Messi. Il calcio per Bertotto allora era ossigeno come lo è oggi, la panchina invece è il suo nuovo posto preferito.
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Bertotto: “Che strigliate di Zac all’Udinese, io fuori dal Mondiale 2002 come Baggio. Su Dinho e Messi…”
Sogni e fatiche in Piemonte, poi quelle notti indimenticabili in Friuli e a spasso per l'Europa, con quella maglia in bianco e nero che dopo tanti anni è ancora la sua seconda pelle. Valerio Bertotto ha 48 anni e non vede l'ora di tornare in campo
Valerio: perché ha scelto di fare l'allenatore?
È stato un modo per tenere viva la mia passione per il pallone. Il mio obiettivo era diventare calciatore: quasi tutti i bambini del mondo lo desiderano. Volevo restare in questo mondo, insegnare quello che ho imparato e mettere in gioco le mie idee e la mia esperienza. Volevo rielaborare i concetti appresi dagli allenatori che ho avuto. Avere fatto il calciatore ad alti livelli per tanti anni è un plus, ma non basta.
Qual è la sua idea di calcio?
Mi piace il calcio di qualità. Insieme all'intensità caratterizza il calcio in generale e soprattutto quello che si gioca ad alti livelli. Desidero questo dai miei calciatori e dalle società con cui collaboro da allenatore.
Com'è nato il suo amore per il pallone?
Sono piemontese da generazioni. Sono nato a Torino. Da giovane calciatore non sono stato selezionato né dai granata né dalla Juve. Ho giocato in una squadretta dilettantistica famosa: il Barcanova. Sono andato ad Alessandria quando avevo 16 anni e mezzo, all'epoca era in C2. Nei primi due anni ho giocato con la Berretti e ho fatto una presenza in C, al terzo sono arrivato in prima squadra e sono diventato titolare. Poi è arrivato il triplo salto dalla C alla A. Mi volevano tante società. Ho scelto l'Udinese perché volevo cimentarmi in A. Ho vinto quella scommessa: lo dimostrano i miei 13 anni coi bianconeri. Ho vissuto i momenti più belli della storia ultracentenaria del club: ricordo le partite in Coppa Uefa, quelle in Champions League, la fascia di capitano. Sono anche stato convocato in Nazionale dal Trap.
C'erano sportivi nella sua famiglia? Che mestiere facevano i suoi genitori?
Mio padre da giovane giocava a calcio, ma non aveva le qualità necessarie per mettere da parte la routine di un lavoro normale. Ha pensato di fare il fotografo, quello che gli piaceva di più. È stato il mio primo allenatore nel Barcanova quando ero piccolissimo. All'inizio non volevo fare il calciatore, un giorno però ho cambiato idea. È nata quella passione improvvisa che mi ha accompagnato per la tutta la carriera.
Lei ha avuto tanti allenatori: chi è stato il più decisivo per la sua crescita?
Tra quelli che mi hanno dato un'impronta agli inizi ricordo Zaccheroni: quando è arrivato ad Udine ero titolare, venivo da buoni campionati, ma ero ancora abbastanza irruento nel mio modo di interpretare il ruolo. Il mister mi sgridava in campo, nelle segrete stanze di fronte ai video mi massacrava abbastanza. Mi ha insegnato a guardare le cose diversamente. Un giorno l'ho ringraziato e gli ho chiesto scusa per le mie reazioni stizzite. Zac è stato come un padre di famiglia che insegna ai figli che cosa devono fare.

Era difficile difendere con Zaccheroni?
È stato un precursore. Ci faceva giocare un calcio inusuale. L'accettazione sistematica dell'uno contro uno ci costringeva ad essere sempre pronti. È stata una palestra importante. C'erano tanti giovani che volevano emergere. Abbiamo avuto un grande exploit importante: siamo arrivati terzi in A, siamo andati in Coppa Uefa. Esserci riusciti in una città piccola come Udine è stato come vincere due scudetti altrove.
Che cosa ricorda di Spalletti invece?
Quanto è arrivato ad Udine, io ero un calciatore affermato. Da Spalletti ho imparato come interpretare quella che sarebbe potuta diventare la mia futura professione. È un tecnico preparato, molto bravo nella programmazione e nella gestione, lavora a 360 gradi. Ricordo anche Gigi Manueli ad Alessandria, il primo che ha creduto in me. A Siena c'era Mario Beretta: un bravo mister e una persona eccezionale.
Lei è stato allenato anche da Trapattoni in Nazionale: brucia ancora il Mondiale del 2002?
Ero al top della carriera. Trapattoni mi voleva già con sé quando allenava la Fiorentina. Ho giocato quasi per due stagioni in Nazionale. Mi aveva detto che sarei stato convocato per il Mondiale 2002. Purtroppo mi sono rotto il crociato in Coppa Italia ad Udine col Parma a dicembre pregiudicando le possibilità di andare in Corea e Giappone. Il giorno dopo la rottura del crociato sono andato dal Professor Mariani per farmi operare. Ho iniziato subito la mia rieducazione. Dopo quattro mesi sono tornato, ho giocato le ultime cinque partite di campionato. Poi sono state fatte altre scelte comprensibili. Lo ricordo come un momento negativo della mia vita professionale, ma non ho rimpianti. Ho fatto tutto quello che dovevo.
Anche Baggio ha saltato quel Mondiale per infortunio nonostante un rientro altrettanto prodigioso: che cosa ricorda?
Vero, anche Roberto si era rotto il crociato. Io ero stato operato al tendine rotuleo, Baggio al semimembranoso con una tecnica differente. Trapattoni però ha scelto di non portare nessuno dei due.
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