Tac, tac, tac. Il pallone contro il muro alle spalle della sagrestia, sotto il sole che bacia Pomigliano d’Arco. I pomeriggi del Piccolo Felice scorrevano così ai piedi di Napoli negli Anni ‘80, al fianco del padre calciatore dilettante per passione. A 13 anni la Juventus dei giovani guidati da Gian Piero Gasperini chiamò l’ex difensore per cambiare la sua storia, quando per raggiungere Torino in treno servivano almeno dieci ore di viaggio in cuccetta. Piccolo ci è saltato sopra per diventare grande, i tanti sacrifici e un pizzico di buona sorte hanno fatto il resto. Giocare con la Juve in Serie B è stata un’opportunità, andare in Romania un passaggio chiave per regalarsi una seconda vita calcistica al Cluj. Oggi Piccolo lavora ancora tra un campo e l’altro, il posto dove si sente ancora Felice.

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Felice Piccolo story: “Io alla Juventus nella cavalcata per risorgere dalla Serie B”
Felice, lei ha smesso di giocare nel 2018: che cosa fa oggi?
Faccio parte dell’agenzia Start Group con sede a Milano attraverso lo studio legale Buongiorno. Gestiamo un po’ di ragazzi. Siamo in tre. Sono rimasto nel mio mondo.
Lei è originario della provincia di Napoli una terra di calcio: com’è nato il suo legame col pallone?
Da bambino andavo dietro a mio padre: lui giocava a calcio per diletto, faceva un altro lavoro. All’epoca c’erano poche possibilità di emergere, non era semplice iscriversi a scuola calcio. Ho imparato tutto per strada. Giocavo vicino alla sagrestia dietro alla chiesa del mio paese, Pomigliano d’Arco vicino Napoli, dove sono rimasto fino a 13 anni. Poi è arrivata la chiamata della Juventus.
Com’è nato il passaggio a Torino?
Ho fatto un provino con Gian Piero Gasperini e Giuseppe Furino. Mi hanno preso ed è partito tutto. Poi sono stato convocato nelle Nazionali giovanili fino all’Under 21 di cui sono diventato capitano.
Com’è stato l’impatto con il mondo bianconero?
Non facile. Allora il treno Napoli-Torino ci metteva 11 ore per arrivare a destinazione. Ti piazzavi nella cuccetta e dovevi avere pazienza. Erano altri tempi. Ricordo gli ultimi abbracci prima di partire. Sono esperienze che ti formano. Chi vuole fare il calciatore deve fare tanti sacrifici tra i 13 e 18 anni. Io a 17 mi allenavo con la Juve che vinse lo scudetto il 5 maggio 2002 contro l’Inter al secondo mandato di Marcello Lippi. C’erano fenomeni come Zinedine Zidane, Edgar Davids, Lilian Thuram e Alessandro Del Piero.
Lei è stato difensore: aveva un modello da calciatore?
Alessandro Nesta: in suo onore ho sempre preso la numero 13. Nel corso della mia carriera però ho fatto anche il centrocampista davanti alla difesa. Nel 2006 la Juve scese in B: all’inizio della stagione mi feci male, al rientro dall’infortunio mi sono ritrovato in mezzo al campo con Mauro German Camoranesi a destra e Pavel Nedved a sinistra, esperienza che mi ha segnato tantissimo.
Che campione era Nedved?
Aveva un tapis roulant in casa, il suo allenamento non finiva mai. Pavel era focalizzato su un unico obiettivo: tornare in Serie A. Fece un campionato strepitoso. Fu indimenticabile il suo gol a Spezia al 94’ dove subimmo per tutta la gara dopo essere rimasti in nove. Lui fece l’1-1. Davvero tanta roba.

Com’è stato giocare con la Juve in B?
Per me e altri giovani è stata una grande opportunità. Al rientro dalla Lazio dopo un’operazione ero certo di andare via. Poi feci tre-quattro buoni allenamenti e il mister Didier Deschamps scelse di farmi tenermi. Aveva bisogno di me. Da gennaio in poi collezionai una decina di presenze fino alla vittoria del campionato e mi riproposi nel calcio che conta.
Quello spogliatoio come sentiva la B?
Con tanto spirito di appartenenza. Se ne erano andati tanti big come Fabio Cannavaro, Zlatan Ibrahimovic, Patrick Vieira. Però il gruppo storico era rimasto: penso ad Alessandro Del Piero, Pavel Nedved, Gigi Buffon e David Trezeguet. Furono loro a trascinare noi giovani. Partimmo da una penalizzazione di -18 punti in classifica e riuscimmo a conquistare il campionato con cinque-sei giornate di anticipo. Non vincevamo tutte le partite 3-0 oppure 4-0, anzi ricordo tantissimi successi di misura. Contro il Rimini all’esordio ad esempio non andammo oltre l’1-1.
Se le dico il momento più bello di quell’anno? Che cosa le viene in mente?
Quando Del Piero nel suo discorso ad Arezzo ringraziò per nome e cognome tutti i giovani: me, Raffaele Palladino, Antonio Mirante, Matteo Paro, Sebastian Giovinco e Claudio Marchisio. È stato un gesto bellissimo nei nostri confronti.
Qual è stato il più grande insegnamento che le ha lasciato la Juve?
Ho imparato che più sali di livello più trovi persone umili e senso di appartenenza. Capisci i sacrifici che vanno fatti per arrivare a certi livelli. Nelle categorie inferiori è diverso: più scendi e più trovi piccoli fenomeni che giustificano i loro fallimenti dicendo che la buona sorte gli ha remato contro.
Lei ha giocato con Giorgio Chiellini: quanto perde la Juve senza di lui?
Tanto, ma ha preso Federico Gatti, un ottimo calciatore. È arrivato in A dopo un percorso di sacrifici iniziato in Eccellenza. Lo ricordo nell’Under 17 dell’Alessandria, l’esperienza alla Pro Patria è stata decisiva nel suo percorso. La Juve ha un pacchetto arretrato di 4-5 difensori importantissimo. Condivido la scelta di far partire Matthijs de Ligt: la società ha incassato bene mettendo da parte un calciatore forte che in Italia però ha fatto troppi errori. Gleison Bremer può fare la differenza.

La Juve se la vedrà con il Milan e l’Inter di Inzaghi per lo scudetto: com’era Simone da calciatore?
Ha sempre avuto una grande personalità. Segnava tanto ed era più slanciato e più alto rispetto al fratello Pippo. Alla Lazio sapeva fare gruppo, era un grandissimo intenditore di calcio anche quando giocava. Conosceva i calciatori dei campionati minori: non ne aveva bisogno, ma questo lo ha aiutato per diventare un grande allenatore. Alla Lazio è cresciuto con Igli Tare e Claudio Lotito: ciò gli ha permesso di arrivare all’Inter.
Che cosa ricorda di Lotito?
Sono stato il suo primo acquisto. Molti lo criticano, ma il presidente ha messo a posto i conti dopo Sergio Cragnotti realizzando plusvalenze importanti. Ha scelto Tare come direttore sportivo, un uomo chioccia che conosce bene il mercato e che è diventato una figura importante del nostro calcio.
A proposito dei fratelli Inzaghi: come vede Filippo sulla panchina della Reggina?
Trova una piazza che viene da anni di batoste e delusioni a livello societario. Ho avuto la fortuna di viverla in Serie A con il primo Walter Mazzarri e con il presidente Lillo Foti. La nuova società vuole ritrovare l’entusiasmo dello stadio Granillo. Inzaghi ha fatto un’annata strepitosa al Benevento in B con una corazzata nel 2019-20. Non ritroverà un gruppo così forte, ma la Reggina ha tutto per essere protagonista in questa B che si annuncia come una A2 in cui è difficile fare pronostici.
Quel è stato il suo momento più bello dal punto di vista calcistico dopo la Juve?
Come maturità penso ai miei 28 anni al Cluj in Champions League. Ho giocato ad altissimi livelli in Europa. Ho vissuto cinque anni stupendi in Romania impreziositi da due scudetti vinti. Poi sono tornato in Italia perché il club è entrato in insolvenza. Potevo andare alla Steaua Bucarest, ma ho preferito andare allo Spezia per due stagioni.
Che cosa avete provato battendo Sir Alex Ferguson e Wayne Rooney?
Fummo l’unica squadra dell’Est a vincere all’Old Trafford. Ci erano riuscite solo quattro squadre n Champions. Fu un ricordo agrodolce: all’83’ con 10 punti eravamo agli ottavi, il Galatasaray però vinse col Braga e finimmo in Europa League contro l’Inter.

Lei ha giocato con Roberto De Zerbi al Cluj: dove lo vedrebbe bene in panchina?
In una squadra propositiva. Ha ancora grossi margini di crescita e deve continuare il percorso in Champions intrapreso con lo Shakhtar. Gli serve un progetto che lo esalti.
Consiglia un‘esperienza all’estero ai calciatori di oggi?
Solo quando si ha già un nome affermato. Andarci senza è rischioso, ti mangiano. Bisogna partire dall'Italia quando si ha già qualche presenza sulle spalle.
Lei ha chiuso nell’Alessandria con Cristian Stellini oggi secondo di Antonio Conte: com'era come allenatore?
È la sua ombra. Ha grande mentalità. Tutto lo staff di Antonio è così. L’annata di Stellini ad Alessandria è stata sfortunata perché ha trovato un gruppo di calciatori in età avanzata, me compreso. Si intravedevano le sue qualità, per questo motivo Conte lo ha richiamato. È un allenatore a 360 gradi, sa dove mettere mano, è un uomo di calcio fantastico.
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