Dino Zoff compie 75 anni: mito del nostro calcio, per tre lustri portiere della nazionale e campione del mondo in azzurro nel 1982 a 40 anni, unico giocatore italiano ad aver conquistato titolo iridato e continentale (quest’ultimo nel 1968). Cresciuto tra i pali nell’Udinese, maturato nel Mantova, affermatosi nel Napoli e nella Juve, Zoff è stato anche eccellente allenatore (soprattutto con Juve, nazionale e Lazio) e presidente (della Lazio). Una vita dedicata al pallone.
Dino Zoff, il campione e l’uomo privato
«Porto con me lle emozioni legate a mio padre e mia madre ma, a dire il vero, ho anche dei rimorsi perché mi sembra di aver fatto poco per loro»
Questo tipo di educazione oggi funzionerebbe ancora? Ci sono certe regole basilari che dovrebbero ancora funzionare perché il comportamento, la dignità, l’onestà, fare bene il proprio lavoro sono valori che raccolgono tutto: professionalità, voglia, passione. Certo, oggi viviamo in un mondo nel quale in ventiquattr’ore cambia tutto, però le cose basilari dovrebbero rimanere. A proposito di cose basilari: cosa significa per lei l’amicizia? E’ un rapporto quasi intimo, una simpatia corrisposta, il sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda. Nell’amicizia ci sono delle regole straordinarie: io a un amico non ho mai chiesto una cosa che avrebbe potuto metterlo in difficoltà, anche in situazioni dove ero io a esserlo.
«Una volta, quando ero al Napoli, mio padre mi chiese: “Come mai hai preso quel gol?”. Gli risposi che non me lo aspettavo e lui replicò: “Ma perché, cosa fai, il farmacista?”»
L’immagine che associamo immediatamente a Zoff è quella del portiere con la maglia grigia a maniche lunghe, colletto e polsini azzurri e la fascia bianca sul braccio sinistro. Un’icona che il tempo non ha scalfito. A più di trent’anni dal suo ritiro dai campi di gioco, che rapporto ha Zoff con la sua carriera di calciatore? Ho un rapporto di contrasto. È vero, ho fatto cose straordinarie però, essendo poco umile nel mio campo di competenza, mi sento sempre responsabile per qualche cosa in più che avrei potuto fare. Forse è un po’ un’arroganza dell’essere, anche se poi non vado a recriminare su ciò che ho fatto perché, probabilmente, nel momento in cui ho agito non avrei potuto fare diversamente. Alla fine, bisogna sempre rimanere nella concretezza della realtà anche se ammetto che, in cuor mio, qualche rammarico rimane, legato forse alla presunzione di migliorare sempre, di ricercare la perfezione del lavoro. Un concetto molto friulano: bisogna lavorare bene, indipendentemente dall’importanza delle cose che si fanno. È il motivo per cui vedo poche delle partite che ho disputato, anche le migliori, perché trovo sempre qualcosa che non andava. Tutta la mia vita è in una frase di mio padre. Credo che la disse ai tempi in cui giocavo nel Napoli: presi un gol su un tiro non irresistibile. Lui mi chiese: “Come mai hai preso quel gol?”. Al che gli risposi che non me lo aspettavo. E lui replicò: “Ma perché, tu cosa fai, il farmacista?”. È una sintesi dell’atmosfera che c’era a casa mia, il concetto a cui accennavo prima dell’impossibilità di accampare scuse. Anche se poi, quando si commetteva un errore, tutta questa severità non c’era. Suo padre era un appassionato di calcio? Appassionato direi di no, però lo seguiva.
«Sono considerato uno sopra le parti. Non ho mai trovato dei tifosi contro, sono sempre stato apprezzato anche dagli avversari»
Facciamo un salto ai due mondiali di Argentina e Spagna, per certi versi simmetrici: partenze dall’Italia con molte critiche e rientri in patria trionfali. Quali sono state, invece, le differenze, risultato finale a parte? Differenze direi poche: ci furono tante critiche in entrambe le occasioni. Si era creato un certo contrasto soprattutto con Bearzot, quasi per partito preso, perché era uno che portava avanti le sue idee con determinazione. L’anno prima del mondiale in Spagna non chiamò Beccalossi in nazionale: naturalmente tutta la critica lo fece diventare il giocatore dell’anno. Però lui aveva l’unica visione che serve per vincere: idee e convinzioni. Oggi mi fanno ridere tutti quelli che si atteggiano a scienziati del calcio, che contano i passi che fanno i giocatori in una partita. Il calcio è semplice. La difficoltà maggiore, oggi ancora più che ai miei tempi, è la conduzione degli uomini: riuscire a creare i presupposti di squadra, di comportamenti, di coraggio che deve avere un allenatore. Se c’è una pallottola, la prendo io che sono il comandante; se devo dire una cosa, la dico io, non la faccio dire a un giornale. Oggi, lo ripeto, è più difficile, perché se un calciatore non gioca i procuratori, se non addirittura le mogli, cominciano a rompere le palle. Inoltre Bearzot era un uomo di cultura: quando qualcuno citava una frase in latino, se era sbagliata lui la sapeva correggere. Siamo riusciti a vincere per questa forza. Ai mondiali del 1974, dove erano in quattro a comandare, ovviamente siamo usciti al primo turno. È una regola: il rispetto dei ruoli è determinante. Sempre facendo riferimento a quei due mondiali, voi giocatori che cosa percepivate di quei paesi, entrambi segnati dall’esperienza della dittatura: pienamente viva nel 1978 in Argentina e superata con difficoltà nell’82 in Spagna? In Argentina a volte si vedevano i militari per strada. Però era l’euforia dei mondiali a sentirsi di più, quello che c’era dietro non si percepiva. La Spagna non si può certo mettere allo stesso livello dell’Argentina, siamo seri. Se parliamo di situazioni politiche, di più riuscii a percepire nei paesi dell’Est. Io sono un osservatore e capii che il comportamento del pubblico era completamente diverso a ridosso dell’89: si vedeva che qualcosa poteva succedere.
«Il mondiale dell’82? Lo sport è immediato, violento nel sentire. In quel momento sei fuori di testa, vivi nelle nuvole, hai una felicità così prorompente senza pensare troppo a quello che c’è intorno, a quello che succederà dopo, ma la gloria dura solo un attimo»
Quella sera di Madrid, quando l’arbitro fischiò, sapevate che stavate entrando nella storia delle persone? Ma no, lo sport è così immediato, così violento nel sentire. In quel momento sei fuori di testa, vivi nelle nuvole, hai una felicità così prorompente senza pensare troppo a quello che c’è intorno, a quello che succederà dopo. E’ il titolo del mio libro: “Dura solo un attimo, la gloria”. La gloria ce l’ho tutt’ora, si traduce nel fatto che tu sei qui per intervistarmi, che sono stimato ovunque vada. È il momento dell’essere in gloria che dura poco. Del resto non si può vivere in gloria per una vita intera. Può sembrare singolare per un friulano come lei aver vissuto cinque anni a Napoli ed essersi stabilito a Roma. È un’attrazione per la diversità o la casualità della vita? Sono le condizioni che si vengono a creare nella vita. Certamente un po’ sradicato lo sono anche se in Friuli ho mantenuto casa e quando posso torno. Lei arrivò a Roma dopo l’addio alla Juventus. Una separazione senza particolari clamori, anche se era piuttosto clamorosa. Ad essere precisi era una separazione che arrivava alla scadenza del contratto. Naturalmente non è stata indolore per me.
«Il compagno più bravo è stato Sivori. Il migliore che ho affrontato Maradona. Poi ci sono Pelé Cruijff, Platini e Beckenbauer»
Oltre al calcio, cosa l’ha appassionata di più nella vita? Senza dubbio gli sport motoristici. Li ho sempre seguiti fin da bambino, le due e le quattro ruote. Le moto le andavo a vedere già quando avevo otto, nove anni. Una volta si facevano i circuiti cittadini, come a Gradisca: si usavano le balle di paglia. Poi cominciai ad andare a vedere le gare in salita: la Trieste-Opicina, la Cividale-Castelmonte. Quando ero a Mantova andai qualche volta a Monza a vedere la 1000 chilometri. Insomma, ho sempre seguito, ho sempre avuto macchine sportive, preparate. Il calcio, oggi, secondo lei dove sta andando? Più che altro mi domanderei dove sta andando il mondo. Il calcio, a parte qualche regola che cambia, rimane sempre lo stesso. Chi poteva pensare che sarebbero venuti i cinesi a comprare le squadre italiane, noi che, dopo gli inglesi, ci sentivamo i padroni del calcio? https://www.youtube.com/watch?v=5GjivZprLcM Secondo lei potrà funzionare? C’è il rischio di perdere valori e tradizioni, però il mondo va avanti. Poi non so se potrà funzionare. I cinesi vengono qui per poi importare il calcio da loro. Quando questo processo sarà avvenuto, non so qui da noi cosa resterà. Io credo nelle tradizioni. Prendi Wimbledon, ad esempio, il concetto di divisa bianca. La tradizione dà importanza alle cose, non è qualcosa di vecchio da buttare via. Capisco anche che, nella vita, ci sono pure delle tradizioni che spariscono: il mondo moderno brucia tutto in ventiquattro ore. È difficile capire come si svilupperà il processo. Finisce con un punto interrogativo questa lunga intervista. Il capitano della nazionale campione del mondo ci offre un caffè, che diventa l’occasione per parlare ancora “off record” della Toscana e del suo quartiere, che ama vivere come se fosse un piccolo paese. Ci accorgiamo di aver gustato ogni minuto della conversazione, incuriositi da parole essenziali, arricchite dal fascino di valori che oggi non siamo abituati a considerare.
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