Il professionismo sportivo femminile. Da tempo se ne parla. E per prima si è mossa la FIGC che lo ha introdotto per il calcio. E, quindi, legittimamente, il Presidente del CONI si è chiesto ad alta voce, perché no per gli altri sport, in cui forse, le donne giocano un ruolo ancora più importante. Il problema però è chiaro ed evidente a tutti. Mancano i soldi!


diritto effetto
Il professionismo femminile è realtà nel calcio, ma le altre federazioni sono ancora al palo
Di Francesco Paolo Traisci. Calcio femminile ormai professionistico, ma urge una norma per gli altri sport.
Costi raddoppiati e insostenibili
Perché professionismo significa contributi, oneri di legge su stipendi, per una tutela sociale del lavoratore. Quindi costi per le società che a tutti gli effetti diventano datore di lavoro e l’atleta un lavoratore subordinato. Un quasi raddoppio dei costi insostenibile per molti sport. Tanto che, nemmeno i maschi, in molti sport, sono considerati professionisti. Peraltro la famigerata legge 91 del 1981 non stabilisce quali sono gli atleti professionisti ma attribuisce al CONI la responsabilità e il compito di definire i criteri per distinguere l'attività dilettantistica da quella professionistica. E lo Statuto del CONI affida al Consiglio Nazionale il compito di stabilire, in armonia con i principi dell'ordinamento sportivo internazionale e nell'ambito di ciascuna federazione sportiva nazionale e delle discipline sportive associate, i criteri per la distinzione dell'attività dilettantistica e comunque non professionistica da quella professionistica. Ma di fatto sono le singole federazioni che decidono se prevedere al loro interno un settore professionistico e in base a quali criteri distinguere i professionisti da i non professionisti. Criteri che non sono mai quelli di ottenere un compenso dallo svolgimento dell’attività sportiva, perché ormai tutto lo sport di élite si basa sull’erogazione di un compenso per chi passa le proprie giornate ad allenarsi ed a competere nei vari sport.
Sono pochi gli sport professionistici
È evidente che ormai, giustamente, lo sport non è più quello di De Coubertin, riservato ai ricchi che per vincere la noia o per fare vedere quanto erano bravi gareggiavano fra loro. Loro si potevano permettere di dedicare tempo ad un’attività non remunerativa. La differenza è quindi posta su basi diverse, e, in pratica, ha come conseguenza l’attribuzione all’atleta professionista delle tutele e delle garanzie del lavoro subordinato. Con, come abbiamo già detto, un aumento dei costi. Per questo poche Federazioni lo hanno introdotto: evidentemente il calcio, che da noi lo prevede per i calciatori delle prime 3 categorie (la LegaPro si chiama così proprio perché è una lega professionistica) ma si parla tanto di riformare i criteri proprio per rendere sostenibile il calcio “minore”. Poi il Basket per la Serie A, il ciclismo (per coloro che gareggiano in una squadra professionistica) ed il golf (ma per il golf il discorso è un altro). Ed altre federazioni vedono una situazione più complicata come la boxe, l’automobilismo o il motociclismo che non conoscono alcun settore professionistico o lo gestiscono a margine dell’attività federale. Lo stesso tennis non prevede il professionismo all’interno della propria federazione, pur con l’evidente presenza di professionisti del settore.
Un fondo del Governo per il professionismo femminile
In ogni caso, fino a qualche mese fa nessuna federazione aveva previsto un settore professionistico per le donne. Ed allora finalmente nel 2020 il Governo, fra le varie riforme per lo sport ha introdotto, nell’ottica delle pari opportunità, il Fondo per il passaggio al professionismo e l’estensione delle tutele su lavoro negli sport femminili, a favore delle Federazioni sportive che avrebbero deliberato entro la fine del 2020 e messo in atto, entro il 31 dicembre 2022, il passaggio al professionismo sportivo di campionati femminili, finanziato per gli anni 2020, 2021 e 2022.
Il professionismo femminile nel calcio
Un fondo a disposizione per tutte le Federazioni che avessero deliberato la scelta di passaggio al professionismo sportivo di campionati femminili. Un fondo non riservato al calcio femminile, ma solamente la FIGC ha ritenuto di dovere aprire al professionismo femminile. E questo anche per i costi. Infatti il Fondo è finalizzato ad assolvere funzioni determinate dalla stessa legge. Non già per per sostenere le spese necessarie per consentire lo svolgimento di campionati femminili professionistici ma, come recita testualmente il nome stesso del fondo, per agevolare “il passaggio al professionismo e l'estensione delle tutele sul lavoro negli sport femminili”, tanto che una volta avviato grazie anche al contributo statale, si assume che il campionato femminile professionistico trovi da sé le risorse necessarie”. I costi della busta paga graverebbero quindi sui club. E solo il calcio, con l’obbligo dei club professionistici (maschili) di avere un settore femminile ha ritenuto di poter sopportare questi costi.
Le altre federazioni
Altre federazioni sono al palo. "Gravina è stato bravo, è partito per primo. Ma soldi zero", ha dichiarato il Presidente FIP Petrucci. "Devono essere le società a sostenerlo, perché per noi è facilissimo aderire. Noi abbiamo 5-6 società, ma se le altre non hanno i soldi come fai a imporre loro il professionismo femminile? E poi ci sono atlete che di fatto sono già professioniste”, alludendo, probabilmente, alle atlete che fanno parte dei gruppi sportivi delle forze armate, che sono sicuramente equiparate ai colleghi maschi. Quindi il discorso è fra pari opportunità e sostenibilità. Certo la donna dovrebbe ottenere una tutela ancora maggiore anche per i casi di gravidanza, ma il discorso dovrebbe essere pure allargato ad una seria riforma del professionismo sportivo. Con un aiuto serio dello Stato nei confronti delle società che non possono essere lasciate sole nel sopportarne i costi!
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