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Esce il nuovo libro di Oliviero Beha: in anteprima il capitolo sullo sport

“Mio nipote nella giungla”, il nuovo libro di Oliviero Beha, è arrivato in libreria, edito dalla casa editrice Chiarelettere. Si tratta di un manuale di sopravvivenza pratica e intellettuale che l’autore suggerisce al nipote di...

Redazione Il Posticipo

"Mio nipote nella giungla", il nuovo libro di Oliviero Beha, è arrivato in libreria, edito dalla casa editrice Chiarelettere. Si tratta di un manuale di sopravvivenza pratica e intellettuale che l'autore suggerisce al nipote di un anno, per avvisarlo dei pericoli senza consegnarsi alla rassegnazione.

“Non credo che il nostro Paese negli anni abbia fatto passi avanti in democrazia, anzi stiamo andando indietro, la gente non è coraggiosa, non sa più pensare - spiega l'autore - Nella copertina del libro tra parentesi c'è anche un sottotitolo (Tutto ciò che lo attende - nel caso fosse onesto) che dà già un giudizio, rappresenta una provocazione. Ho cercato di denunciare la disonestà circostante”.

"La fine del gioco" è un intero capitolo è dedicato allo sport. Oliviero Beha sottolinea: "Il calcio, e più in generale lo sport quindi il gioco, nasce per creare la ricreazione delle persone. Ma anche quei mondi risentono della malattia diffusa del nostro Paese. Il capitolo racconta di come anche questa ricreazione sia finita".

In anteprima per Il Posticipo, i primi paragrafi del capitolo sullo sport:

La fine del gioco. E dei Giochi

La temperatura delle parole viene prima del loro significato.

Il miniuomo prende a calci una palla, di stoffa, di gomma,

di plastica. O una pigna. Quello che gli capita, in uno

sgambettio articolato. Ci sarà un motivo per cui gli viene

così naturale e così in fretta, non vi pare? L’avrà visto in tv,

oppure semplicemente è la sfera che gli è ancestralmente

congeniale, a partire dalla forma della Terra… E si dà da

fare, già corre come un indiavolato prendendo possesso

del suo corpo, presto in qualche modo salterà, in lungo

e in alto.

Un tempo le madri si sgolavano in leggendari «non correre

che sudi», adesso una profluvie di genitori incurante

del valore pedagogico dell’attività sportiva investe sui figli

d’allevamento sferico, come futuri campioni di calcio

che sbarchino il lunario per generazioni passate e future.

Se non si bruciano i soldi per via, rapinati dalle wags (le

fanciulle accompagnatrici che tanto animano il gossip)…

È una giungla anche quella, internazionale e paesana,

traversata da animali/procuratori che hanno mangiato la

foglia e insieme la foresta dove gira tanto denaro (e tante

percentuali) se il bipede in calzoncini passa di squadra in

squadra, di campionato in campionato, alla faccia delle

bandiere di un club e a volte di una città intera o di

un’etnia tifosa sparsa a ogni latitudine, che va a sventolare

e abbrunarsi laddove conviene di più.

Eppure il calcio è una delle massime espressioni dell’umanità

contemporanea, è una multinazionale frastagliata

da numeri mostruosi, specie per il consumo tv e pubblicitario,

una forma neppure troppo celata di controllo politico

e sociale, un veicolo mediatico senza paragoni. Come ha

fatto a diventare tutto questo in meno di mezzo secolo,

decollando come un’astronave nelle gerarchie passionali

dei popoli, anche se pure prima catturava le fantasie di

me bambino e adolescente?