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Moriero: “Ronaldo un fenomeno anche a -15, sul fallo di Iuliano non c’era bisogno della Var. E su Conte vi dico che…”

Iniziare la sua seconda vita non gli è pesato perché in fondo non ha mai smesso di fare ciò che amava fin da bambino. Talento, dedizione, umiltà: così Francesco Moriero da calciatore ha fatto breccia nel cuore dei tifosi interisti ma non...

Simone Lo Giudice

Ha ancora il dribbling nel sangue e il mare negli occhi. Francesco Moriero da Lecce ne ha fatti di miracoli: da ragazzino è riuscito a farsi spazio nei campi assolati del Sud a suon di dribbling e tanta voglia di arrivare. Nessuno affollava la sua mente come i calciatori giallorossi, ma in poco tempo è passato dall'imitarli sull'asfalto... a stringergli la mano! Dopo sette stagioni di apprendistato, ha messo la quinta. Tre anni a Cagliari, due a Roma e tre all'Inter, dove si è inventato anche lustrascarpe di successo: quando le calzature di Recoba e quelle di Ronaldo finivano in prima pagina, ci pensava lui a dargli una lucidata in segno di rispetto. Moriero è stato un campione umile che puntava l'uomo senza paura. Il coraggio non gli è bastato per diventare campione d'Italia nella stagione 1997-98, ma è stato sufficiente per vincere una Coppa Uefa da protagonista. Dopo l'Inter c'è stato un biennio al Napoli che però sapeva già di seconda vita. Poi Moriero ha ricominciato la gavetta... ma questa volta dall'altra parte del campo!

Francesco, le manca il calcio giocato dopo tanti anni? Come è stato smettere?

Non è stato difficile perché l'ho deciso io. Nell'ultimo anno a Napoli ho avuto un po' di infortuni. Quando ho capito che non potevo più dare il massimo, ho comunicato a mia moglie che volevo lasciare il calcio e lo abbiamo deciso insieme: non ho sofferto per averlo fatto. Ho iniziato subito a frequentare il corso di Coverciano, dove ho preso tutti e tre i patentini, e ho cominciato a fare un mestiere che mi ha permesso di restare nel mio mondo.

Quali sono le differenze tra il calcio in cui è cresciuto lei e quello di oggi?

Nel calcio in cui giocavo io c'era molta più qualità rispetto ad oggi. Basta pensare ai campioni che sfidavi: ogni squadra ne aveva tre o quattro. Io ho avuto la fortuna di giocare contro il Milan di van Basten, Gullit e Rijkaard e Baresi, ma anche contro l'Inter dei record. Poi ho avuto grandi compagni: Juan Barbas e Pedro Pasculli a Lecce, Enzo Francescoli e Gianfranco Matteoli a Cagliari, Francesco Totti e Giuseppe Giannini a Roma... E poi nella mia Inter c'erano Ronaldo il Fenomeno, Roberto Baggio, Ivan Zamorano, Christian Vieri e Alvaro Recoba...

Che cosa è cambiato oggi rispetto ad allora?

Era un calcio molto più tecnico, dove la tattica veniva un po' messa da parte. Allora il lavoro dell'allenatore era diverso rispetto a quello di oggi: il mister doveva saper gestire lo spogliatoio e dare indicazioni tattiche fino a un certo punto, perché ci pensavano comunque i calciatori a risolvere le partite. Oggi è tutto diverso: l'allenatore incide tantissimo su una squadra. Sia in Serie B che in Lega Pro mi è capitato di allenare molti giovani che non sanno stare in campo per cui lo sforzo da fare è doppio. Si è abbassata la qualità e bisogna lavorare molto tatticamente.

Perché si è abbassata la qualità: ci sono troppe pressioni oggi?

Io non ho mai risentito delle tensioni né da calciatore né da allenatore. Da giocatore mi interessava solo scendere in campo e far divertire la gente. Oggi ci sono più media: i giocatori leggono tanto su internet, ascoltano le critiche e seguono le trasmissioni. Penso che i calciatori non debbano risentire di tutto questo. Sono ragazzi che fanno il lavoro più bello del mondo e vengono pagati per far divertire i tifosi. Non condivido che ci siano tutte queste pressioni.

Lei è nato a Lecce: che cosa ha significato per lei calcisticamente?

Quando ho preso per la prima volta il pallone tra le mani, volevo diventare un calciatore del Lecce: sognavo di indossare la maglia della mia città, di rappresentarla e di far divertire il mio pubblico. Non avevo in mente nessuna altra squadra. Guardavo "Novantesimo Minuto" e poi scendevo giù con gli amici per cercare di imitare i giallorossi. All'epoca bisognava andava al Via del Mare due o tre ore prima dell'inizio della partita perché lo stadio era sempre pieno e lì potevo guardare da vicino i miei idoli. A volte speravo di fare il raccattapalle per lo stesso motivo. Lecce è la mia città e continuo a tifare per la sua squadra: per me rappresenta tanto perché mi ha lanciato nel grande calcio.

A Lecce lei è cresciuto insieme ad Antonio Conte: che rapporto avete? Tornerà in Italia?

Ho avuto la fortuna di crescere con tanti leccesi molto forti: nel 1988-89 siamo arrivati a due punti dalla Coppa UEFA e otto undicesimi venivano dal settore giovanile. C'erano Luigi Garzya, Gianluca Petrachi e Conte. Il rapporto con Antonio è fraterno: non ci sentiamo tutti i giorni perché è sempre in giro per il mondo. Ci vediamo d'estate: parliamo di calcio e di vecchi ricordi. Conte vuole vincere subito e guarda i programmi delle società: tutto dipenderà da ciò che vorranno fare quelle che lo cercheranno. Antonio ha rifiutato il Real Madrid ed è stato accostato alla Roma, all'Inter, allo stesso Milan e a tutte le squadre più forti d'Europa, ma è una cosa normale per un vincente.

 

(Photo by Popperfoto/Getty Images)

Nel maggio 1997 lei si era accordato col Milan, a luglio però c'è stato il suo passaggio all'Inter: per come sono andate le cose, non si è pentito di quella scelta...

Una sera ero a cena con un club inglese. Mi ero svincolato dalla Roma e dovevo andare in Inghilterra, però è arrivata la telefonata di Adriano Galliani che mi ha proposto di andare al Milan: ho detto sì e ho firmato. Poi c'è stato un fatto strano: André Cruz aveva firmato con entrambe le milanesi, alla fine ha scelto i rossoneri. All'Inter è stata proposta una lista di giocatori del Milan e Gigi Simoni ha scelto me in cambio: ho accettato perché andavo a giocare coi calciatori più forti del mondo. Non che nel Milan non ci fossero... Ma poter giocare con Ronaldo mi stuzzicava.