La sua prima squadra italiana è stata il Milan: che cosa ricorda?
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Kutuzov: “Maldini un esempio al Milan, giocare a hockey mi ha aiutato dopo la squalifica. Coronavirus? L’Italia ci perderà tantissimo…”

Il Milan mi ha permesso di cambiare la mia vita e di arrivare nel grande calcio. Ogni giorno potevo vedere Paolo Maldini nello spogliatoio: un esempio per carattere, carisma e semplicità. Quando vieni catapultato da una realtà all'altra e hai qualche difficoltà con una nuova cultura e un'altra lingua cominci a cercare punti di appoggio. Per me Maldini è stato fondamentale. Quando sono arrivato a Milanello mi avevano dato un portatile ingombrante e avevo chiesto allo staff di Milanello di aiutarmi per installare Internet: il pc aveva la tastiera in russo e loro non ci capivano niente. A pranzo sono andato da Maldini per chiedergli una mano: mi ha detto di raggiungerlo nella sua stanza. Ci ha messo tre ore a sistemarmi il computer, poi siamo andati ad allenarci: Paolo non si è riposato neanche cinque minuti pur di aiutarmi. Lui era il capitano del Milan, io chi ero per lui? Se Paolo mi chiede di fare il giardiniere di Milanello lo faccio. Mi ha insegnato i valori che io cerco di trasmettere.
Oggi il Milan sta affrontando un momento difficile: che idea si è fatto?
È una società di grande valore. Mi dispiace tanto per come stanno andando le cose. Secondo me tanti meccanismi economici hanno condizionato le scelte prese dalla società. Spero che questo momento finisca presto e di ritrovare un Milan di alto livello.
Dopo l'anno al Milan lei è andato in prestito allo Sporting Lisbona di un giovanissimo Cristiano Ronaldo: che cosa ricorda?
È stata una nuova avventura per me, ho imparato un'altra lingua. Ronaldo era molto giovane e curioso, voleva capire tante cose. Mi aveva fatto qualche domanda su Milan Lab che all'epoca era molto rispettato. Giocavamo più o meno nello stesso ruolo. Qualche volta siamo stati insieme nella stessa stanza in ritiro. Io non parlavo bene portoghese, ma era bello provare a chiacchierare e vivere le partite insieme.
Lei è stato allenato da Zeman all'Avellino: che cosa ha rappresentato per lei?
Con Zeman ho cominciato a lavorare seriamente. Mi ha saputo gestire, anche quando ho preparato la valigia un paio di volte per andare via. Alla fine sono rimasto. Lavorare con Zeman è stato stressante psicologicamente e fisicamente. All'epoca cercavo un punto di appoggio, con lui però avevo problemi perché ci parlava pochissimo. Ho avuto momenti di crisi, ma sono riuscito a superarli. Se mi guardo indietro lo ringrazio, anche se gli auguro di parlare di più coi giocatori. Grazie a lui sono tornato in Serie A alla Sampdoria, una squadra piena di campioni. Le due punte erano due bandiere della squadra: Francesco Flachi e Fabio Bazzani. Ho giocato sessanta partite in due anni con loro debuttando seriamente in A perché col Milan avevo giocato solo due partite. Devo ringraziare il mister Novellino per aver creduto in me.
Lei è stato allenato da Ventura al Pisa e al Bari: che cosa le ha insegnato?
A vivere senza ansia e senza stress. Ventura è stato un punto di riferimento: grazie a lui ho smesso di leggere i giornali a 27 anni e ho trovato un equilibrio. Cercavo di essere sempre concentrato e attivo. Lui mi parlava, cercava di trasmettermi i suoi di valori. Ci ha reso consapevoli della nostra forza. La squadra ha cominciato a girare, alcuni giocatori sono diventati importanti per il calcio italiano. Tra me e Ventura si è creato un rapporto particolare, diverso da quello che c'è di solito tra un allenatore e un giocatore. Mi piacerebbe collaborare con lui in futuro.
Com'è stato passare da Conte a Ventura?
Quando Conte è andato via dal Bari mi è dispiaciuto tanto: tra me e il mister c'era tanta sintonia, con lui in panchina sapevo sempre che cosa fare in campo. Quando ho saputo che al suo posto sarebbe arrivato Ventura però sono stato felice. Hanno qualcosa in comune, anche se hanno caratteri diversi e vedono il calcio in maniera diversa. Giocare con entrambi è stato facile per me.
Lei ha giocato con Francesco Caputo: lo vede bene in una grande squadra in futuro?
Ciccio è un ragazzo semplice: viene dal Sud. È aperto, sincero e sorridente. Questo gli ha permesso di arrivare a trent'anni a fare le cose che sta facendo.
Lei ha segnato all'Inter a San Siro nel 2009: se lo ricorda?
È stato un momento particolare per tutti noi. Il Bari aveva fatto quasi sempre la Serie B, non era abituato alla A. Quell'estate avevamo cambiato allenatore e qualche giocatore, eravamo andati in ritiro con alcune difficoltà. Alla prima partita all'Inter a San Siro ci siamo chiesti che cosa potessimo fare: quella partita ci ha detto che eravamo una squadra tosta e che potevamo giocarcela con chiunque. Lì è nata l'avventura del Bari in A, la più bella che potessimo immaginare. Abbiamo fatto paura a grosse squadre. Quel gol e quella gara sono rimasti impressi nella mente dei baresi: erano 5mila a San Siro. Una bella soddisfazione.
Al Bari però ha avuto molti infortuni ed è stato squalificato per il calcioscommesse: c'è dell'amaro in bocca per come è finita?
Per me Bari è stata come una storia d'amore, nel bene e nel male. Dopo la retrocessione sono stato messo fuori rosa senza capire il motivo. Avevo avuto anche un infortunio pesante e in quelle condizioni non potevo cercarmi un'altra squadra. A Natale la squadra era in difficoltà e sono stato reintegrato. Dopo una settimana di allenamenti ho debuttato nel nuovo Bari ed è cominciata un'altra sfida per me: ho giocato dieci partite, mi sono comportato da professionista e il mister si è complimentato con me. Poi è successo quello che è successo. È stata una bella storia finita male.

Giocare ad hockey su ghiaccio l'ha aiutata quando è stato squalificato?
Sì. Quando sono stato squalificato non ho fatto nessun ricorso: non credevo di dovermi difendere, non avevo fatto del male a nessuno. Volevo giocare, non volevo andare in tribunale. Mi è rimasto l'amaro in bocca, non credevo più nel mondo del calcio. L'hockey mi ha fatto sfogare, è stato un modo per tenermi in forma, farmi nuovi amici e divertirmi. Avevo 33 anni all'epoca: non è un'età critica per i calciatori, ma siamo verso la fine della carriera.
L'hockey le ha permesso di ritornare bambino in un certo senso?
Da bambino ci giocavo in mezzo alla strada in Bielorussia, ma non avevo i pattini: li ho messi in Italia per la prima volta. Col tempo ho cominciato a divertirmi. D'estate andavo a fare qualche camp, mi ricordo quello in Repubblica Ceca: ogni giorno ero a contatto con ragazzi più giovani, quell'esperienza mi è servita tanto. Siamo rimasti lì per tre settimane: c’erano bambini di 8 anni e ragazzi di 21, io ne avevo 34 e aiutavo lo staff oltre a giocare.
Ha ancora un sogno nel mondo del calcio?
Vorrei far diventare qualche ragazzo più forte di me. Sono convinto di potercela fare: vorrei che la mia società diventasse una fabbrica di talenti. Non lavoriamo solo con bielorussi e russi, mi contattano anche tanti italiani. Purtroppo finché in Bielorussia saremo così pochi non potremo fare granché. Sempre più gente però ci sta chiedendo una mano. Non può sempre farla franca la politica, dobbiamo avere valori. Da vecchio mi piacerebbe che uno di questi ragazzi venisse da me per darmi una pacca sulle spalle e dirmi che sono stato importante per lui e che senza il mio aiuto non sarebbe andato da nessuna parte.
Lei si rivede un po' in questi bambini?
Ho cominciato a giocare a calcio quando avevo 6 anni, ma non ho avuto quello che loro hanno oggi. Io sono cresciuto per strada, a certe cose ci sono arrivato tardi: ho imparato a fare certe cose andando avanti con gli anni, alcune abbastanza tardi e questo mi ha condizionato. Noi invece diamo fin da subito ai ragazzi tutto quello gli serve per crescere. Oggi lavoro con professionisti di altissima qualità che hanno aiutato me in passato. Sono molto attento alla tecnologia, alla preparazione e alla psicologia. Cerco sempre di stare al passo coi tempi.
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