interviste

Michele Serena: “Vi racconto la mia Inter e l’addio di Ronaldo il Fenomeno. Il 5 maggio è una ferita aperta”

Un sogno cullato tra Laguna e campo, un dolore che non passa mai, un vestito che forse addosso non gli sta più bene come un tempo. Oggi Michele Serena ha 51 anni e crede ancora che il lavoro faccia sempre la differenza, nel calcio e nella vita

Simone Lo Giudice

Uno sguardo che fissa il vuoto, mentre tutto scorre. Il 5 maggio 2002, il giorno più difficile per un tifoso dell'Inter, quello che Michele Serena non avrebbe mai voluto vivere. Per vincere lo scudetto era disposto a smettere, dopo calvari lunghi stagioni e difficili da raccontare. Figlio di operai, ha scoperto il calcio per caso e se ne è innamorato perdutamente. La Juve è stata un regalo di gioventù, l'Inter il sogno cullato da sempre. Michele ricorda tutto di quelle annate con la sua squadra del cuore: le vittorie che fanno sperare, la gloria sfiorata e le cadute, la voglia di non mollare. Nemmeno oggi che il calcio gli ricorda un po' quei vecchi vestiti che addosso non stanno più bene come un tempo. L'ex esterno, che un giorno ha sostituito Edmundo alla Fiorentina quando il Carnevale di Rio ha chiamato, oggi è pronto a rimettersi in gioco.

Michele, la sua ultima esperienza in panchina risale al 2019: che momento sta vivendo?

Sono in attesa. Purtroppo nell'ultimo anno e mezzo è stato impossibile andare allo stadio. Ho visto molte partite da casa per tenermi aggiornato. Mi è mancato il calcio dal vivo. L'anno scorso è arrivata qualche proposta, ma ho declinato. Nell'ultima stagione non sono stato cercato. Allenare è un mestiere precario.

Che cosa l'ha spinta ad intraprendere questo percorso?

I miei ultimi due anni da calciatore sono stati un calvario per colpa degli infortuni. Mi ero nauseato. Non pensavo all'inizio di intraprendere la carriera di allenatore. Amici vicini al pallone mi hanno spinto e si è riaccesa la fiammella. Ho cominciato nel settore giovanile poi sono andato in prima squadra a Venezia.

Che cosa è cambiato di più nel calcio?

I rapporti. Negli ultimi anni c'è stato un mutamento forte. Mi sono dovuto spesso confrontare con queste dinamiche. All'improvviso il calcio era un vestito che non mi stava più bene addosso. Aspetto e spero che qualcuno si ricordi di me. Il nostro lavoro è questo. Bisogna sperare che qualcuno ti dia un'opportunità.

Quale è stata l'esperienza più bella che ha vissuto in panchina?

Impossibile dimenticare il Triplete con lo Spezia: siamo stati i primi a riuscirci e siamo ancora gli unici ad avercela fatta in Serie C in Italia. In A lo ha vinto solamente Mourinho con l'Inter. Però ricordo molto volentieri anche le salvezze conquistate col Venezia, nonostante grosse difficoltà societarie che poi sono sfociate in due fallimenti. Per me ha significato tanto anche l'annata di Padova: si era instaurato un bel rapporto con la piazza e con la città nonostante fossi veneziano. Ricordo i grandi valori della sua gente.

Quanto le fa piacere rivedere il Venezia in Serie A?

Molto! Io vivo a Venezia e sono felice per il club. Hanno fatto una cavalcata incredibile. Lo scorso anno non erano tra i favoriti per la promozione, gli addetti ai lavori li davano addirittura in terza fascia. Spero che riescano a salvarsi e restino nell'élite. Lo spero per Paolo Poggi e Mattia Collauto: c'erano nella mia prima esperienza da allenatore a Venezia, quella della salvezza conquistata a Sesto San Giovanni.

Qual è la sua idea di calcio?

Il mio modo di essere in panchina rispecchia il mio carattere, quello che mi ha accompagnato per tutta la mia carriera da calciatore. Ero un grande lavoratore, credo ancora nel valore dei sacrifici. Solo tutti quegli sforzi mi hanno permesso di restare in Serie A per 15 anni, se non mi fossi sacrificato in quel modo sarei caduto prima. Probabilmente faccio fatica a ritrovare tutto questo oggi nel calcio moderno.

Com'è nata la sua passione per il pallone?

Un vicino di casa mi portò a fare un provino quando avevo otto anni nell'allora Mestrina. I miei allora non facevano nemmeno sport: mio padre era operaio, mia madre casalinga. Non mi hanno spinto a fare il calciatore come fanno oggi tanti genitori coi loro figli che invece dovrebbero pensare solo a divertirsi.

 (Photo by Juventus FC - Archive/Juventus FC via Getty Images)

Che cosa le hanno detto i suoi genitori quando è arrivato alla Juve?

È stata una cosa improvvisa, è nata quasi a mia insaputa. Mi è stato detto che sarei andato alla Juventus la sera prima del mio arrivo a Torino. È successo tutto velocemente. Ho esordito in Serie A con la maglia bianconera nel dicembre '89. È stata la mia prima tappa nel grande calcio. Sono passato dalla Serie C col Venezia alla A con la Juve: ho fatto il doppio salto. Dopo quattro presenze a Torino è cominciato il mio girovagare. Ho giocato a Monza in C per una stagione e poi sono ritornato in A, questa volta a Verona.

Lei è stato allenato dagli svedesi Liedholm al Verona ed Eriksson alla Samp: cosa ricorda?

Venivano dal nord d'Europa, erano sempre eleganti e pacati. Ricordo di più Eriksson: mi ha allenato per tre stagioni a Genova. Non andava mai fuori dalle righe, riusciva a farsi capire sempre. Quella Samp era davvero una bella squadra. C'erano grandi giocatori: da Mancini a Vierchowod, da Lombardo a Mannini. C'erano Salsano e Nuciari che sono nello staff azzurro. Ricordo anche Evani. Un anno e mezzo fa sono passati da Venezia e sono andato a trovarli: è stato bello.

Qual è il segreto di Mancini e del suo staff?

C'è amicizia dentro e fuori dal campo. Era così anche in quella Sampdoria. L'Italia ha vinto gli Europei anche per questo motivo, al di là delle capacità tecniche di staff e giocatori. La moglie di un azzurro ha rivelato che durante il pre-ritiro in Sardegna i giocatori si cercavano anche quando erano liberi perché volevano stare insieme. C'è un legame forte come c'era stato a Berlino nel 2006 e in Spagna nel 1982. Le cose migliori arrivano quando c'è empatia all'interno del gruppo. Proprio la mancanza di empatia mi ha spinto a lasciare Vicenza. Io lavoro con allegria perché bisogna stare bene prima di ogni altra cosa.