Milanese: “Io e l’Inter meritavamo lo scudetto nel 1998. Il -15 alla Juve? Non operava da sola…”
Milanese: “Io e l’Inter meritavamo lo scudetto nel 1998. Il -15 alla Juve? Non operava da sola…”
La testa dura fin da piccolo, una dolce notte parigina di fine millennio illuminata dal Fenomeno, la città in cui è nato e ritornato sempre con il pallone tra i piedi. Oggi Mauro Milanese ha 51 anni ed è pronto a ripartire dalla sua Trieste
Simone Lo Giudice
60 chilogrammi di caffè sulle spalle, poi dritto fino al magazzino, la stiva della nave che si svuota mentre soffia un vento forte. Storie di chi cresce a pane e sacrifici a Trieste: città che per mille merci è solo un luogo di passaggio, ma per chi ci è nato è il posto dell'anima. All'inizio degli Anni '70 uno di questi uomini è diventato padre del piccolo Mauro che ha portato sul campo da calcio tanta fame e voglia di rivincita, il talento poi ha fatto il resto. La Triestina come seconda casa, Gigi Simoni come il padre calcistico che tutti vorrebbero tra Cremona, Napoli e Milano. Mauro Milanese è ancora uno dei "Ragazzi del 1997-98". Quelli che hanno sfiorato lo scudetto con l'Inter poi vinto dalla Juventus tra mille polemiche. E che anni dopo condividono le loro esperienze di vita in una chat aperta per ricordare quello che sono stati in campo. Dopo il calcio giocato, Milanese è diventato un direttore sportivo: lo deve al presidente Luciano Gaucci, tanto alle sue sfuriate dopo le sconfitte quanto alle sue coccole dopo le vittorie. Dopo aver salvato la Triestina per due volte, Milanese è pronto a scrivere una nuova pagina del libro della sua vita.
Mauro, che cosa le ha lasciato l'esperienza alla Triestina?
Sono contento per aver salvato la società in due occasioni. La prima volta con mio cugino Mario Biasin nel 2016, la seconda dopo la sua morte la scorsa estate. Mario è scomparso il 16 maggio, noi abbiamo salvato il club il 22 giugno. Avevo chiesto di mandare un messaggio via PEC. Per fortuna sono arrivate tre lettere da tre gruppi differenti. L'affare si è chiuso a tre giorni dalla scadenza.
Lei è triestino: di che cosa va più fiero?
Sono orgoglioso per aver riportato la squadra in alto dopo le difficoltà societarie e per aver contribuito al rifacimento dello stadio. È bellissimo, ci sono le barriere trasparenti. Sono stati rifatti i seggiolini, il tunnel che porta agli spogliatoi e la sala stampa. C'è un manto erboso perfetto. Potrebbe ospitare la Champions League. Io sono cresciuto nelle giovanili della Triestina e ho militato nella prima squadra per due stagioni tra 1992 e 1994. Ho giocato nel vecchio Nereo Rocco. Dopo trent'anni gli serviva un restyling.
Qual è il suo rimpianto più grande a Trieste invece?
Aver sfiorato la Serie B al mio terzo anno: siamo arrivati secondi dietro al Pordenone, purtroppo abbiamo perso la finale playoff contro il Pisa. Sarebbe stato bello portare la Triestina dal terzultimo posto in D alla B. Gli anni del Covid-19 sono stati particolari. Nel 2021-22 siamo stati eliminati ai playoff dal Palermo che poi è andato in B: abbiamo sbagliato un rigore e ci è costato caro.
Che cosa l'ha spinta a diventare direttore sportivo?
Quando ho smesso di giocare ho preso subito tre patentini: da allenatore, da agente Fifa e da direttore sportivo. Volevo tenermi preparato per qualsiasi eventualità. Il mio grande desiderio era fare l'allenatore. Ho giocato in Serie A per 14 anni e in Inghilterra. Ho disputato la Champions League e vinto la Coppa Uefa. Ho avuto tanti campioni del mondo in squadra, tanti fenomeni tra cui il Fenomeno. Volevo trasmettere la mia esperienza. All'inizio però non alzavo il telefono per cercare lavoro, ero un po' orgoglioso.
Che cosa le ha fatto cambiare idea?
Alcuni miei amici ed ex compagni mi hanno chiesto di fargli da procuratore, allora sono diventato agente Fifa. Poi il Varese mi ha dato la possibilità di fare il direttore sportivo per tre stagioni, nel 2014 sono andato al Leyton Orient per ricoprire lo stesso ruolo un po' all'italiana. In Inghilterra è troppo importante la figura del manager che fa sia l'allenatore che il direttore sportivo. Tutte queste esperienze però sono state fondamentali per ricoprire la carica di amministratore unico della Triestina dal 2016 al 2022.
Com'è nata la sua storia d'amore con il calcio?
Giocavo all'oratorio dei salesiani. Ero uno dei più bravi, così mi ha scelto la Triestina, la squadra della mia città. Da bambini ci bastava poco per giocare: due magliette per terra oppure due alberi per fare i pali. Passavano meno macchine rispetto ad oggi.
C'è qualcosa della sua terra che l'ha aiutata a diventare calciatore ad alti livelli?
Da ragazzi ci chiamano muli perché eravamo testardi. La fame nasce dalla mia famiglia povera. Mio padre faceva grossi sacrifici, lavorava in porto. Scaricava 60 chilogrammi di caffè dalle navi, lo faceva di notte con il vento. Trieste è un porto strategico: tutta la merce che arriva dall'est passa da qui, poi viene spedita nel nord d'Europa via treno o via camion. C'è sempre una grande manovalanza di facchini addetti a svuotare le stive delle navi per trasportare tutto nei magazzini a terra. Mia madre faceva un part-time alla Upim come mia sorella. Faticavamo ad arrivare a fine mese. Questo mi ha dato grande rabbia in positivo. Diventare calciatore professionista era un sogno. Ce l'ho messa tutta per avere una vita più fortunata e regalare una casa ai miei genitori.
Qual è stato il suo papà nel calcio invece?
Gigi Simoni. L'ho incontrato nel 1994-95 a Cremona, dove mi aveva voluto il direttore sportivo Erminio Favalli. Partivo come una terza scelta. Simoni mi ha fatto debuttare in Serie A poi mi ha voluto con sé al Napoli e all'Inter. Abbiamo condiviso tre squadre. Era una persona di qualità, un uomo d'altri tempi. Non era mai banale. Sapeva darci una giusta spiegazione per le sue scelte. Era credibile, il primo a credere in ciò che diceva. Sapeva trasmetterci tutto con grande chiarezza. Siamo rimasti legati noi calciatori di quell'Inter. Condividiamo una chat che si chiama "Ragazzi 1997-98". Nessuno di noi è più un ragazzino, ma ci piace definirci così.
Che cosa rappresenta per lei Cremonese-Inter?
Cremona è stata la mia prima piazza in A. Da ragazzino incollavo sul mio album le figurine di Franco Baresi, Marco van Basten e Ruud Gullit, anni dopo mi sono ritrovato insieme ad alcuni di loro nel sottopassaggio di San Siro. Erano i miei idoli. Il giorno del mio esordio ho realizzato un sogno. Cremona è tranquilla, non mette pressione, è il posto giusto per iniziare con il grande calcio.
Come vede la sfida dello stadio Giovanni Zini in questo momento?
La Cremonese ha perso a San Siro all'andata ed è l'unica squadra che non ha ancora vinto, anche per questa ragione è ultima. Le serve un'impresa per salvarsi. L'Inter è caduta contro l'Empoli, è stato un brutto passo falso. Mi aspettavo una vittoria nell'ultimo turno, invece ho visto tanti calciatori nerazzurri sottotono. Il Napoli ha un vantaggio importante su tutte le altre per lo scudetto.
L'Inter rischia il posto in Champions League?
La classifica è corta, ci sono cinque squadre per tre posti. Quando perdi così anziché pensare allo scudetto è meglio cominciare a guardarsi alle spalle. Sono convinto che l'Inter arriverà tra le prime quattro. Con questa classifica però è tutto ancora possibile.
A proposito di lotta Champions: che idea si è fatto sulla penalizzazione di 15 punti alla Juventus?
Il meccanismo delle plusvalenze è sempre esistito. È difficile dare un valore di mercato a un giovane di prospettiva, si è giocato sempre su questo. È complicato stabilire quanto costa un ragazzo che non è mai stato inserito in nessuna transazione di mercato in precedenza. Bisognerebbe mettere delle regole e dei tetti a seconda di quello che hanno fatto i giovani nella loro breve carriera.
È giusto che sia stata penalizzata solamente una squadra finora?
No, perché la Juve ha fatto le operazioni con altri club. Questo fenomeno va delimitato con parametri certi e con alcuni paletti.
Tornando al campo: la domenica di pioggia a Perugia nel 2000 ha cancellato il pomeriggio di Torino tra mille polemiche nel 1998?
Nel 1998 ho perso lo scudetto con la Juve, nel 2000 gliel'ho tolto io. Nell'Inter di Simoni c'erano grandi giocatori, oltre a Ronaldo. Dire che il Fenomeno ha vinto la Coppa Uefa da solo è riduttivo. Per me è stato un piacere giocarci per due anni. Era talmente forte che ha fatto fare gol a tutti, compreso me. Vincere la Coppa Uefa a Parigi con la Lazio è stato bellissimo. Quell'anno l'Inter e la Juve vincevano sempre, lo scontro diretto fu determinante. Il mancato rigore fischiato per l'intervento su Ronaldo ci ha tolto uno scudetto che meritavamo. Nel 2000 il Perugia già salvo ha vinto contro la Juve. Qualche volta il calcio toglie poi restituisce.
Com'è stato essere un dipendente del presidente Luciano Gaucci?
Bello. Era una persona esuberante che riusciva a tirare fuori quello che un calciatore aveva dentro di sé. Una volta vincevamo 1-0 contro la Juve, poi abbiamo perso 2-1 e ci ha mandato in ritiro. Essere nella parte sinistra della classifica non bastava per evitare il ritiro. Andarci era una seccatura per allenatori e calciatori, però ci stimolava. A volte Gaucci ci spediva persino in trasferta: una volta abbiamo perso a Torino e ci ha mandato a Norcia. Da quella squadra sono saltati fuori tanti direttori sportivi, me compreso. Chi proviene dalla scuola Gaucci oggi sta facendo benissimo: penso a Gianluca Petrachi a Sean Sogliano e a Roberto Goretti.
Come si comportava in caso di vittoria?
Gaucci era folcloristico, ma molto generoso. Ci dava bonus e premi. Con lui non esisteva il grigio: tutto era bianco o nero, o ritiro o soldi. Gaucci però era competente come i direttori sportivi che hanno fatto parte del suo Perugia: da Fabrizio Salvatori a Walter Sabatini fino ad Alessandro Gaucci. Anche Ermanno Pieroni fu speciale. Il presidente ha avuto intuizioni brillanti: da Hidetoshi Nakata, uno dei primi giapponesi, a Milan Rapaić, Zīsīs Vryzas e Zé Maria. Gli italiani Marco Materazzi, Fabio Grosso e Fabrizio Miccoli. E ancora Fabio Liverani, Marco Di Loreto e Guglielmo Stendardo. Sono legato a Perugia. C'erano euforia e competenza.
Mancano presidenti come Gaucci al calcio italiano?
A me piacevano. Gente come Romeo Anconetani, Aldo Spinelli e Maurizio Zamparini facevano trasparire la passione per il calcio e per la loro squadra. Avevano atteggiamenti sopra le righe, facevano dichiarazioni eccessive e prendevano decisioni forti per dimostrare che erano loro i presidenti. Però erano appassionati e incoraggiavano l'attaccamento dei tifosi alla città e alla squadra. Quando vedo i presidenti di oggi che parlano di squadre come se fossero aziende mi fanno passare la voglia di fare calcio.
L'unico presidente di oggi che si avvicina al modello descritto da lei è Aurelio De Laurentiis?
Sì, però per i risultati che ha ottenuto De Laurentiis dovrebbe meritare più consenso. Ai tempi di Gaucci quando finivamo in ritiro erano tutti contenti. Quasi tutti i presidenti oggi sono un po' contestati o presi di mira. Sono cambiate tante cose nel calcio.
Quali sono i suoi progetti per il futuro dopo l'addio alla Triestina?
Cerco una piazza dove poter lasciare il segno e fare qualcosa di buono come direttore sportivo. Mille persone parlano di mercato, troppe. Per prendere un calciatore servono quindici telefonate, in passato bastava una firma. Serve una via di mezzo. Il direttore sportivo deve essere sì in collegamento coi membri del club, ma anche provvisto di un budget autonomo. Occorre un dialogo tra lui e l'allenatore, però ognuno deve ricoprire il proprio ruolo. Oggi ci sono troppe influenze, servirebbe qualche paletto in più. Ho avuto la fortuna di ricoprire il mio ruolo alla Triestina in totale libertà. Sarà difficile trovare un'altra società con questa mentalità.