Genuino come una persona qualunque che potresti incontrare in una strada assolata di un paesino lombardo alle porte dell'estate. Dario Hübner ha fatto la storia del calcio italiano sotto porta senza far rumore, a parte quando infilava il pallone alle spalle del portiere in tutti i modi possibili: col destro, col sinistro, in acrobazia, con la testa, su rigore. Hübner ha parlato la lingua del gol a spasso per l'Italia per una ventina d'anni: con la maglia del Cesena si è fatto conoscere, con quella del Brescia è esploso, a Piacenza ha fatto la storia della Serie A. Ha indossato la maglia del Milan per dodici giorni, ma lo stile di una grande non lo ha spinto a mettere da parte la sua autenticità. Hübner ha fatto tutto alla luce del sole: spesso ha segnato, qualche volta ha fumato, ha sempre amato il calcio. Non ha smesso di farlo nemmeno oggi nella piccola frazione lombarda di Passarera, dove vive e dove culla il sogno di fare l'allenatore.
interviste
Hübner: “Le sigarette nel calcio? Quasi tutti fumano di nascosto. Oggi faccio il portiere. Vi racconto i miei 12 giorni al Milan…”
Sentiva la porta come pochi: quello che gli importava era solo buttarla dentro. Dario Hübner non ha mai fatto della forma una sua ragione di vita. Il bomber di provincia ha preferito sostanza e coerenza con se stesso a tutto il resto e non ha...

Dario, le manca giocare a calcio? Come è stato smettere?
Sì, il calcio è stato la mia vita per vent'anni ed è logico che mi manchi. Quando l'età aumenta fai sempre più fatica a giocare. Oggi diverto un po' insieme agli amatori e faccio il portiere. Se gioco fuori rischio di farmi male. Bisogna sempre guardare in faccia la realtà: quando passano gli anni il fisico non è più lo stesso di prima e a un certo punto ti rendi conto che non riesci più a fare tutto quello che ti riusciva in passato: allora è giusto smettere.
Che lavori ha fatto nella sua vita oltre al calciatore?
Ho fatto il fabbro per quattro anni, il panettiere per quattro mesi. La mia vita è stata regolare e apprezzo tanto le piccole cose. Nessuno mi ha mai regalato niente, non sono nato nella bambagia: per questo motivo tutto quello che sono riuscito a fare è una grande soddisfazione per me.
Che cosa sta facendo adesso?
Ho seguito i corsi da allenatore, ma sono disoccupato in questo momento: vado in giro a vedere partite, mi piace il calcio e faccio passare il tempo così. Ho fatto anche il master e potrei allenare in Serie A. Oggi come oggi però è difficile cominciare specialmente nel campo dilettantistico perché alcune scelte che andrebbero prese non mi piacciono tanto: è dura trovare un posto. Oltre al calcio ho anche un bar, ma lo gestisce mio cognato.

Quali differenze ci sono tra la sua Serie A e quella di oggi?
La mia Serie A era più genuina, era fatta da uomini veri e c'era più amicizia tra i giocatori in campo e fuori. C'erano anche veri gruppi: sotto questo aspetto il calcio di oggi è molto diverso. Ai miei tempi era più semplice formare un gruppo perché non c'erano tantissimi stranieri in squadra: su 20 giocatori, 15-16 erano italiani e 4-5 stranieri che riuscivano a integrarsi molto bene. Le squadre di oggi sono piene di stranieri che spesso finiscono per andare d'accordo tra di loro ed è più difficile creare un vero gruppo.
Che cosa significava fare il capitano quando giocava lei?
Ai miei tempi diventava capitano chi, come minimo, era rimasto per 4 o 5 anni in una squadra: non era il padrone di casa, ma faceva quasi parte della società e conosceva l'ambiente. Per tutti noi il capitano era un punto di riferimento: l'ho fatto anche io a Cesena e a Piacenza. Era una figura fondamentale per i nuovi arrivati se c'era qualche problema all'inizio: insomma era una garanzia. Oggi invece diventa capitano a volte anche chi è in un club da pochi mesi.
Le società pagano scelte simili? All'Inter la situazione con Icardi è precipitata...
Non credo, penso che ogni società faccia le scelte che ritiene più giuste. Quando giocavo io, il capitano era una persona importante all'interno dello spogliatoio. Forse oggi non è più un punto di riferimento. Sceglierne uno anziché un altro è sempre più spesso una questione di immagine.

Lei ha giocato con Cesena, Brescia e Piacenza: negli ultimi anni hanno sofferto parecchio...
Nel calcio ci sono i cicli: dopo tanti anni una società può fare fatica ad andare avanti, poi magari ritorna ai fasti del passato. Quello che conta è il risultato: se vinci le cose vanno bene, se perdi vanno male. Questa stagione però è stata positiva: il Brescia è tornato in A, la Pergolettese ha vinto il campionato di D ed è andata in C. Il Piacenza deve fare lo spareggio col Trapani e può tornare in B. Il Mantova ha fatto bene e il Cesena è ritornato in C dopo il fallimento. Quattro delle mie cinque squadre sono state promosse e una ce la può fare: spero che ci riesca.
Lei a Brescia è stato allenato da Carlo Mazzone: che cosa ricorda del mister?
Mazzone è una persona intelligente: quando vincevi faceva il cattivo e quando perdevi tirava su il gruppo, faceva battute e raccontava i suoi aneddoti di quando aveva allenato la Roma. Era un allenatore molto sveglio che sapeva prendere il gruppo nella maniera giusta ed essere cattivo o buono quando era necessario. Non aveva un fratello gemello che veniva fuori a seconda delle circostanze: Mazzone era bravo a capire le situazioni.
Lei ha giocato con Roberto Baggio e Andrea Pirlo: che cosa le hanno dato entrambi?
Giocare con Roberto è stata una fortuna e una sfortuna. Parlo di fortuna perché nell'anno in cui ho giocato con lui, ho ammirato tutto il suo talento. Aveva piedi pazzeschi: non sembravano quelli di un essere umano. Parlo di sfortuna perché l'ho incontrato a 35 anni: avevamo la stessa età e non eravamo più all'apice della nostra carriera quindi non gli ho visto fare dal vivo le cose che aveva mostrato qualche anno prima. Quando mi chiedono quale è stato il giocatore più forte con cui ho giocato rispondo Pirlo perché l'ho visto crescere e già a 18 anni aveva qualcosa in più rispetto agli altri: visione di gioco, tecnica sopraffina e piedi pazzeschi. Sapevo che avrebbe fatto una grande carriera.
L'ex presidente del Brescia Luigi Corioni ha detto che con qualche sigaretta in meno lei sarebbe stato il più forte di tutti: è d'accordo?
In quegli anni ero un po' ingenuo: ero una persona talmente trasparente che se volevo fumare lo facevo davanti a tutti. Sappiamo benissimo che la maggior parte dei calciatori fuma, ma sono intelligenti e lo fanno di nascosto. Sono sempre stato uno genuino e non avevo paura di mostrarmi come ero davanti alla gente: forse per questo motivo ho dato un'immagine un po' particolare di me, ma non ero l'unico che fumava anzi...
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