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Zé Elias: “Simoni, un padre. Juve-Inter 1997-98? Non è normale quello che è successo, meritavamo lo scudetto. Cedere Lautaro sarebbe un errore”

Simone Lo Giudice

Il coronavirus ha colpito duramente il Brasile: come è la situazione? 

Io vivo a San Paolo a duecento metri dall'Avenida Paulista, una delle vie principali della città in cui ci sono tanti negozi. Sto bene, a casa mia per fortuna stanno tutti bene. In Brasile il Presidente Bolsonaro dice una cosa e i Governatori degli Stati ne dicono un'altra: è un problema perché la gente non sa che fare. Io sono a casa coi miei figli e lavoro da qui: faccio il commentatore per Espn. Mia moglie è una dottoressa, è ginecologa ed oncologa e deve andare in clinica per seguire le sue pazienti. Va in ospedale per assistere ai parti e curare i malati di cancro.

C'è tensione a San Paolo?

Ci sono state manifestazioni, un po' di gente è scesa per strada. Alcuni dicono che non dobbiamo uscire perché il virus uccide ancora tante persone, altri vogliono lavorare. Non si sa verso quale direzione dobbiamo andare. Il calcio è fermo. Alcune squadre a Rio si sono allenate di nascosto, ad esempio il Flamengo, per fare un po' di pressing e tornare in campo. A San Paolo ne hanno parlato, ma il Governatore ha detto 'no'. Qui è tutto fermo perché è la città brasiliana più colpita dal virus insieme a Manaus. Le misure per combattere l'emergenza sono diverse per ogni Stato: a San Paolo ci sono condizioni favorevoli per combattere il virus, in altre invece è impossibile farlo. La situazione è difficile.

Lei si è ritirato dal calcio giocato 11 anni fa: come è stato smettere?

Per me è stato semplice perché ho lavorato sulla mia testa. Negli ultimi 3-4 anni da calciatore ho cercato d⁶ýi capire che cosa avrei voluto fare dopo. Mi sono preparato mentalmente. Ho detto a mia moglie che non volevo allenare perché non avevo voglia di continuare a viaggiare. Mi piaceva l'idea di fare il commentatore perché finito il post-partita puoi tornare a casa, vedere i figli e goderti la famiglia. Mi sono preparato, ho guardato molte trasmissioni e ho ascoltato tanta radio. Ho iniziato a lavorare come commentatore a Radio Globo a San Paolo, nel 2014 sono andato ad Espn. Ho raccontato il Mondiale di Brasile in televisione e dopo ci sono rimasto.

Quel Mondiale è stato un dramma per voi?

Per la gente che non segue il calcio sicuramente sì. Noi vivevamo vicini alla squadra e sapevamo che cosa sarebbe successo. Ci aspettavamo già la botta contro il Cile agli ottavi di finale quando Pinilla ha preso la traversa: in quel momento la qualificazione ci è sembrata un miracolo. Ci ha illuso la Confederations Cup dell'anno prima: il Brasile ha battuto la Spagna e tutti hanno pensato che avessimo la squadra per vincere il Mondiale, ma le cose non stavano così.

In quel Brasile c'era un grande Neymar: le piace come giocatore?

Nel calcio di oggi però non si vince da soli, nemmeno se nella tua squadra c'è Neymar che è uno dei più grandi al mondo per me. Non basta nemmeno lui: serve una grande squadra che gioca per Neymar. Nel club magari è diverso perché c'è un altro modo di lavorare e gli avversari spesso sono più deboli soprattutto in alcuni settori del campo. In Nazionale è tutto diverso.

Quando ha deciso di fare il calciatore?

Io non ho mai pensato di farlo: è successo. Ho iniziato a giocare a 5 anni: facevo calcetto col Corinthians. Non ho mai pensato di fare questa carriera, piuttosto ho riflettuto quando si è trattato di scegliere che cosa fare dopo aver smesso. Avrei potuto fare il fisioterapista oppure il chitarrista perché mi piace suonare: il mio gruppo preferito sono gli Iron Maiden, però non sono capace e da adulti è più difficile imparare.

Nel 1996 lei ha lasciato il Brasile per l'Europa: è stato difficile quel passaggio?

A 16 anni ho esordito col Corinthians nella Serie A brasiliana, a 18 nella Nazionale maggiore, a 19 ero in Europa. Ai miei tempi andarci era più difficile di oggi: c'era spazio per 3 extracomunitari, il sistema era rigido per i calciatori stranieri. Fino al 1996 per andare in Europa dovevi essere un giocatore della Nazionale, dovevi aver vinto dei premi e dei campionati in Brasile. Prima di tutto bisognava richiamare l'attenzione della società con cui giocavi. Avevamo contratti di 3 mesi, 6 mesi, massimo un anno. Solo i grandi giocatori avevano contratti così lunghi.

Che cosa ricorda della sua esperienza in Germania al Bayer Leverkusen?

È stata bellissima, una delle più importanti della mia vita. Quando mi sono trasferito lì è cambiato tutto per me. In Brasile non potevo uscire per strada perché ero giovane, giocavo per una squadra che aveva tantissimi tifosi e c'era grande rivalità con quelli delle altre squadre: non sapevi mai se sarebbero venuti a chiederti l'autografo oppure a darti un pugno o peggio ancora a sputarti addosso. In Germania ho fatto una vita normale: il calciatore fa il calciatore, non è diverso dalle altre persone. Il giorno in cui ho firmato il contratto, il direttore Reiner Calmund mi ha detto due cose che mi sono rimaste che non ho mai dimenticato: non pretendevano che io giocassi al massimo livello al primo anno, ma volevano che vivessi in Germania come un tedesco. Secondo loro se avessi vissuto come un brasiliano dopo 3 mesi avrei chiesto la cessione. Ho seguito questo consiglio per tutto il resto della mia vita calcistica: in Italia ho vissuto come un italiano, in Grecia come un greco.

 Mandatory Credit: Claudio Villa /Allsport

Mandatory Credit: Claudio Villa /Allsport

Nel 1999 lei è passato dall'Inter al Bologna: che cosa ricorda?

Mi sono trovato benissimo, ho stretto rapporti fantastici. Non mi è piaciuto solo come sono stato trattato da Guidolin. Alla vigilia della sfida con la Juve avevo avuto una colica renale: ero finito all'ospedale, uscito da lì avevo viaggiato con la squadra. Il mister mi aveva chiesto se volessi giocare, io gli risposi di sì anche se stavo male perché avevo preso tanti medicinali per il problema ai reni. Ho giocato, ma ero un fantasma e sono uscito dal campo. Poi c'è stato il 'derby del latte' contro il Parma: prima della partita Guidolin aveva detto davanti ai miei compagni che ero un grandissimo calciatore e mi aveva ripetuto di stare tranquillo perché con lui avrei giocato sempre tranne quel giorno in cui sarei rimasto in panchina. Dopo quella frase non ho più giocato. Guidolin sarebbe dovuto venire da me per dirmi che non voleva più contare su di me, si è comportato malissimo. Un'altra volta in una partita a Bologna era il 43' della ripresa, mi disse di alzarmi dalla panchina per entrare in campo: dal 43' fino al 45' il pallone non è più uscito. Quando è andato fuori, Guidolin mi ha richiamato e ha mandato in campo Pierre Wome al mio posto. Guidolin non mi detto le cose in faccia: questa cosa mi ha fatto male. Per il resto è stata una bella esperienza.

Nel 2004 lei giocato al Genoa in Serie B: come è stato ritornare in Italia? 

Quando sono tornato in Italia avevo la pubalgia e provavo tanto dolore: a un certo punto non riuscivo più nemmeno a camminare. Ho giocato bene i primi tre mesi, poi non sono più riuscito a scendere in campo. Sono tornato in Brasile, ho fatto un intervento chirurgico e sono tornato a Genova per finire il campionato e dimostrare che stavo bene.

Lei ha chiuso la carriera in Austria: come si è trovato?

È stato bellissimo: mi piaceva vivere ad Altach, mi sarebbe piaciuto restare lì dopo il ritiro dal calcio. Vivevo in un comune di 5000 abitanti nel cuore dell'Europa. Andavo ad allenarmi con la bici, passeggiavo insieme ai miei figli. Purtroppo non sono riuscito a rimanere lì a vivere, sono tornato in Brasile perché avevo già un nuovo lavoro in radio.

Lei ha scritto un libro sulla sua esperienza vissuta in carcere nel 2011: ha cambiato qualcosa nella sua vita?

Non ha cambiato niente: sono la stessa persona che ci è entrata. Non ho commesso nessun crimine. In Brasile c'è una legge che prevede il carcere se non paghi gli alimenti per 3 mesi. Quando mi sono separato io prendevo lo stipendio da calciatore. Dopo il mio ritiro, è iniziato il processo per stabilire la nuova cifra che dovevo corrispondere: è durato sette anni. Il volume dei soldi è cresciuto sempre di più, io ho detto chiaramente che non potevo pagare quei soldi perché non ero più calciatore. Così mi hanno portato in carcere e ci sono rimasto per 30 giorni. Lì ho fatto la stessa vita che avevo fatto a 12-13 anni quando nel settore giovanile del Corinthinas. Andavamo fuori San Paolo per giocare e pernottavamo nelle scuole. È stata un'esperienza forte: ho visto tante cose in carcere. Mi dispiace molto per i miei figli che sono stati esposti mediaticamente a questa cosa: per loro è stato brutto, per me non è stato così perché so che tipo di persona sono.

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