“Sono 40 anni che penso a quel rigore”: l’ex campione d’Italia non ce la fa più I Carriera e vita condizionati da quel momento sul dischetto

Il calcio di rigore, uno dei momenti più iconici e topici di una partita. Tanti esempi rimasti nella storia. Uno in particolare.
Un istante congelato nel tempo, una frazione di secondo in cui il destino di una partita, e a volte di un’intera nazione, si decide. Undici metri di erba che separano un attaccante e un portiere, un duello psicologico puro, nudo, privo di coperture e stratagemmi.
Non a caso ci hanno scritto una delle più belle canzoni della musica italiana, partorita dalla mente geniale di Francesco De Gregorio in quell’iconica e senza tempo de La leva calcistica della classe ’68.
“Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è da questi piccoli particolari che si giudica un giocatore”. Una frase che, nella sua semplicità, racchiude l’essenza di questo momento topico: la pressione, la paura e, in ultima analisi, il coraggio.
Difficile non associare il concetto di rigore fatale a un’immagine indelebile nella memoria collettiva: Roberto Baggio che alza sopra la traversa il suo tiro nella finale del Mondiale USA ’94 contro il Brasile. Il suo rigore non era decisivo, in pochi si ricordano che se il Brasile avesse segnato, sarebbe finita lo stesso.
Una guerra di nervi
Eppure quell’errore che trasformò un’icona in un simbolo di fallimento momentaneo, un’immagine straziante che ancora oggi, a distanza di decenni, evoca un brivido. In quel momento, sul dischetto, non c’era solo un calciatore con la sua tecnica, ma un’intera nazione che tratteneva il fiato, proiettando su quel pallone le proprie speranze e paure.
La psicologia del tiratore è un crogiolo di sensazioni: la visualizzazione del gol, la consapevolezza del peso sul proprio piede, la distrazione del portiere, l’assordante silenzio dello stadio prima dell’esplosione, o del pianto. Un vortice di emozioni che solo i diretti interessati possono capire.

Un altro esempio
“Ancora oggi sogno di notte da 40 anni episodi legati al fatto di non aver avuto la possibilità di tirare quel rigore. Subentrai a Pruzzo a partita in corso ed ero stato inserito come quinto rigorista. Non l’ho mai tirato. Lei può capire cosa vivo io da 40 anni, non è facile convivere con una cosa del genere”.
Odoacre Chierico si tocca quella ferita, le cui cicatrici fanno ancora male ripensando alla finale di Coppa dei Campioni del 1984 persa dalla Roma contro il Liverpool. Non poté battere quel rigore. Magari lo avrebbe sbagliato, magari no. Il problema per lui e per tutti i tifosi della Roma è che non si saprà mai. Mai. Mai.